11 quasi-racconti brevi che sarebbero venuti meglio se…, Finzioni

8 – L’uccello (o dell’impossibilità dello scrivere)

Oggi mi è stato detto di continuare a scrivere. Non è servito a nulla che io dicessi non ci riesco. «Non so nemmeno se mi fa del bene. O se ne ho bisogno». «Non importa. Continua». Più tardi tornavo verso casa, passando per la solita via. L’odore guasto dei cassonetti dei rifiuti, i marciapiedi bagnati per il temporale del pomeriggio. In terra c’era un uccellino con un’ala spezzata. L’ho preso in mano e d’improvviso è cominciato a piovere. Mi sono riparato sotto un balcone, sedendomi in terra con le ginocchia al petto. L’uccellino sulla mia mano, incerto se restare o andare. Ci scriverò una poesia – mi sono detto – mentre lo guardavo. Poi ho ricordato il mio primo racconto, scritto quando avevo più o meno dieci anni. Parlava di un uccello di nome A. e del bambino che lo mostrava in giro per il paese tenendolo sul dito di una mano. E ho anche pensato che l’altra sera in TV avevano ridato Gli uccelli di Hitchcock e di che strana coincidenza fosse.  Nel mentre l’uccello è volato via. Ho alzato gli occhi per inseguirne la traiettoria e ho realizzato che aveva smesso di piovere. Mi sono alzato e ho ripreso a camminare verso casa. Ero quasi arrivato quando mi sono fermato di fronte una pozzanghera, mi sono inginocchiato e ci ho immerso le mani fino ai polsi. Ho guardato il mio riflesso nell’acqua finché un cane non mi si è avvicinato strusciandosi sulle mie braccia. Arrivato a casa ho preso il mio taccuino. Ho letto l’ultima pagina: c’è un uomo su un treno diretto verso un lungo chiamato arrivederci, ha occhi di ragazza e una valigia di cartone con dentro l’infanzia del mondo. Poi ho scritto: promemoria → scrivere poesia. Ho riposto il taccuino nello scrittoio e sono andato in balcone a fumare. Sì, mi sono detto. Ci scriverò una bella poesia. Una poesia che parla di un uccello di nome A. I fanali delle auto si rincorrevano in direzione tangenziale. Sono rimasto a osservali finché non ha fatto giorno.

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Borderline, Finzioni

senza titolo #99

una volta giocavamo a fare l’amore ma eravamo troppo giovani per capire che l’amore conta fino a un certo punto, ciò che conta è stringersi le mani, anche se sono fredde, anche se il freddo è dentro, e fuori i corpi è caldo, caldo come quella canzone che cantavamo in agosto, tu che la suonavi piano (la chitarra con la scritta AMAMI in rosso tra le braccia) e io che contavo il tempo con i cocci sul tavolo della veranda, come un batterista alle prime armi che tiene il ritmo con il cuore tra le mani

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11 quasi-racconti brevi che sarebbero venuti meglio se…, Finzioni

7 – la morte della rivoluzione

lo trovarono con il coltello in gola e il machete infilato su per il culo. con la morte di QQQ morì anche l’idea della rivoluzione e come ogni rivoluzione, nel momento in cui muore, non rimasero che macerie e qualche pezzo di merda pronto a pararsi il culo; i più furbi vendettero subito le informazioni giuste, in cambio i sodali del Re offrirono loro cinque soldi e due puttane a scelta tra quelle rimaste storpie; i più stupidi continuarono a frequentare gli stessi posti, a parlare con gli stessi toni, convinti che i nascondigli fossero sicuri e che dalle macerie potesse nascere ancora qualcosa. all’alba del terzo giorno, riuniti come al solito al rifugio del Castagno, nemmeno si accorsero dell’imboscata quando sopraggiunsero le guardie reali  e con esse i cani affamati che li avrebbero sbranati di lì a un paio d’ore; i più fortunati – e cioè quelli che furono catturati mentre erano in fuga – finirono nelle celle, a contare i passi del boia, sperando ogni notte che la propria notte non fosse quella ma quella successiva

 

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6 – io e Giada

Siamo solo amici, io e Giada. Eppure lei me lo tira fuori dalle mutande e lo prende in mano. Per vedere quant’è grande – dice. Allora, io ripenso a quando Boris, sul materassino sgonfio nel salotto di casa a mare dei suoi, me lo prese in mano. Per vedere quant’è grande – disse pure lui. E penso che io non  me lo sono mai misurato, e fa strano quando te lo vogliono misurare gli altri.

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Finzioni, Poesia

Peso

scivolo da parte a parte

quale parte? mi chiedo.

inseguo ma non scelgo

incerto seguo e tu mi uccidi

di fame sete e infedeltà mi uccidi

e morire è come guarire

immergersi sott’acqua, poi risalire.

(inspiro)

lento respiro e peso dentro ciò che sento:

saturi d’esistenza scorriamo

non è che resistenza, un segno di resa.

 

2 dicembre 2014

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5 – umiliazione, indifferenza o scalpore?

in autobus, tornando a casa, erica pensa al modo migliore di sbarazzarsi di tobia. pensa prima all’umiliazione: sì, si dice, lo umilierò davanti a tutta la scuola, così almeno impara. poi si dice no, l’idea dell’umiliazione sembra non solleticarla più di tanto. indifferenza, pensa. sì, indifferenza! – mostrati superiore, si dice, non dargli nemmeno la soddisfazione della rabbia… anche se, pensa di nuovo, gridargli in faccia quello che pensa davvero, per giunta davanti a tutta la scuola… come sarebbe bello – allora sì, vada per l’umiliazione, anzi… no, non sarà mica troppo? indifferenza, meglio, sì, sarà meglio: quando si avvicinerà dicendole “sigaretta?” (un modo come un altro per portarsela al cesso e toccarle le tette) girerà i tacchi e andrà via. ecco. sì. perfetto! anzi, no. no, no, no. non va bene. troppo tenera così. troppo. troppo. non va. scorre la bacheca di facebook sul cellulare, proprio mentre l’autobus accosta, e lei si prepara per scendere alla sua fermata. pensa: sarà scalpore! sì, scalpore! lo lascerà destando scalpore: un post su facebook e giù tutti i dettagli intimi, sì… anche quel giochino che a lui piace fare quando sono in intimità e che solo lei conosce. sembra decisa, talmente decisa che si ritrova già a impostare una prima bozza sulla funzione note del cellulare, ma poi, eccola fermarsi bruscamente. e se lui facesse lo stesso, si dice, se rivelasse quelle cose che piacciono tanto a lei? del resto, non sarebbe altro che vendetta, legittima vendetta peraltro (anche se, a onor del vero, lo stronzo che si è fatto quella della b in gita è lui!) e proprio nel momento in cui sta per riconsiderare l’idea dell’umiliazione, o forse dell’indifferenza, ecco illuminarsi lo screensaver del cellulare. whatsapp. tobia: ci vediamo nel pomeriggio? ti devo parlare

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(Estratti) in forma di prosa, Ossessioni

Una questione di identità

Ognuno di noi ha una storia del proprio vissuto, un racconto interiore, la cui continuità, il cui senso è la nostra vita. Si potrebbe dire che ognuno di noi costruisce e vive un «racconto», e che questo racconto è noi stessi, la nostra identità.

Se vogliamo sapere qualcosa di un uomo, chiediamo: «Qual è la sua storia, la sua storia vera, intima?», poiché ciascuno di noi è una biografia, una storia. Ognuno di noi è un racconto peculiare, costruito di continuo, inconsciamente da noi, in noi e attraverso di noi – attraverso le nostre percezioni, i nostri sentimenti, i nostri pensieri, le nostre azioni; e, non ultimo, il nostro discorso, i nostri racconti orali. Da un punto di vista biologico, fisiologico, noi non differiamo molto l’uno dall’altro; storicamente, come racconti, ognuno di noi è unico.

Per essere noi stessi, dobbiamo avere noi stessi – possedere, se necessario ripossedere, la storia del nostro vissuto. Dobbiamo «ripetere» noi stessi, nel senso etimologico del termine, rievocare il dramma interiore, il racconto di noi stessi.

L’uomo ha bisogno di questo racconto, di un racconto interiore continuo, per conservare la sua identità, il suo .

(Oliver Sacks – L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello)

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4 – psicanalisi d’amore

di mio marito non sopporto la barba lunga, e quelle buffe pantofole che a volte indossa anche mentre facciamo l’amore, e poi i tatuaggi – ce n’ha due tre tra la schiena e il collo, uno più brutto dell’altro – e poi il fatto che non mi pensa, sì certo, non mi pensa, mai una volta che avesse un pensiero carino per me, che so, un mazzo di fiori, una poesia, una cazzo di sette-veli dal  siciliano che sa che adoro tanto; e poi è irrequieto: e lui lo sa,  – lo sa perché mi conosce e sa quanto odio la gente irrequieta – e odio anche lui quando è irrequieto e vuole fare l’amore, a volte con indosso quelle pantofole buffe che comprammo da qualche parte, di ritorno da un viaggio, non ricordo nemmeno da dove, dalla Malesia forse, oppure era la Turchia, chissà

*

di mia moglie non sopporto l’idea che non mi sopporti. voglio dire: a me va bene così, altroché. non mi andasse bene mica l’avrei sposata, o no? mi sembra ovvio. però certo, ci sono cose che stonano, ma non è forse normale questo? non succede anche nelle migliori coppie, in quelle più collaudate voglio dire? e allora perché dovrebbe essere un problema per noi? perché? in fondo, a me va bene così, mi basta anche solo sentire il suo respiro sul mio petto quando mi abbraccia poco prima di dormire. il resto, sarò sincero, sono solo fesserie

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11 quasi-racconti brevi che sarebbero venuti meglio se…, Finzioni

3 – l’attesa

piano piano sarebbe arrivata la sera. eppure, qualcosa in quel pomeriggio lungo, troppo lungo, rendeva insostenibile l’attesa, non fosse altro perché con la sera stavolta non sarebbe arrivata lei, e così sarebbe stato per sempre; l’uomo guardò oltre la veranda della sua casa di campagna, guardò verso i salici e verso il muretto a secco e poi guardò il melo sotto il quale, in primavera, erano soliti far l’amore, lui e lei, come due ragazzini innamorati anche quando dell’amore di cui sa nutrirsi l’adolescenza non era rimasto che un tenero afflato

ebbe la tentazione di muoversi dalla veranda, procedere verso il melo, stendersi sulla terra rossa e calda e aspettare. ma cosa avrebbe aspettato? di cosa avrebbe riempito quella attesa? avrebbe nascosto le mani nella terra così come aveva amato fare con lei e poi cos’altro? ebbe paura ed ebbe paura in un modo fino ad allora sconosciuto, una paura quasi inconsapevole. così decise di rimanere in veranda e aspettare, pur non sapendo cosa: l’attesa stessa che riempie l’attesa?

poi, qualcosa tradì il pensiero e il ricordo e con essi anche la scenografia di quel pomeriggio lento; la vide nuda come quando la ebbe per la prima volta, e la vide in piedi, una mano appoggiata al tronco dell’albero e un’altra sul fianco, come a mimare un sensuale invito rivolto al suo amante; l’uomo ebbe un fremito, fece per alzarsi dalla sdraio sulla quale era seduto, poi guardò ancora verso l’albero ma non vide nient’altro se non il solito sfondo a cui era abituato: gli ulivi del terreno vicino, e più in là la strada provinciale

improvvisamente gli venne alla mente il modo in cui lei amava respirare nel suo orecchio poco prima di venire, e poi pensò alle sua mani fredde, di come sapessero farsi riscaldare nei pomeriggi invernali o nelle serate estive di pioggia. lasciò cadere quell’ultimo pensiero e chiuse gli occhi. si alzò una leggera brezza, il vento gli accarezzò la nuca ma lui sembrò quasi non accorgersene

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11 quasi-racconti brevi che sarebbero venuti meglio se…, Finzioni

2 – l’esperimento

La ragazza entrò nella stanza coi pugni chiusi infilati nelle tasche dei jeans. Il tedesco era già lì, seduto a una scrivania bianca di un materiale che lei non avrebbe saputo definire ma che se avesse dovuto definire avrebbe definito plastica. Il tedesco deviò lo sguardo, – dal PC sul quale stava lavorando alla ragazza – poi tornò a guardare il PC. Dopo, guardando nuovamente lei, le fece cenno di sedersi.

La ragazza era a conoscenza della procedura. Chi già ci era stato le aveva raccontato e lei sapeva che adesso avrebbe dovuto apporre tre firme – foglio 1, foglio 2, foglio 3 – e poi indicare, precisamente sul secondo dei tre fogli, il conto corrente sul quale avrebbe desiderato ricevere il pagamento.

Una volta espletate le procedure formali il tedesco porse alla ragazza una scatola bianca. La ragazza vi lasciò dentro due bracciali, una collana e il cellulare. Poi, sollecitata, si alzò e proseguì oltre la scrivania dove vi era una porta al di sopra della quale c’era una scritta arancione: SALA REGISTRAZIONE.

Una volta dentro una infermiera dai capelli ricci e con il nome – Carol – inciso su una targhetta di metallo in pieno petto, le chiese di spogliarsi. Poi le consegnò quella che sembrava a tutti gli effetti una tuta da ginnastica, tipo quella che era solita indossare durante le lezioni di yoga del venerdì. Una volta indossata la ragazza ebbe una sensazione sgradevole, la stessa sensazione che si ha quando si tiene tra le mani una spigola e la si ripulisce dalle interiora.

Subito dopo l’infermiera le porse un bicchiere di plastica con dentro un liquido bianco.

Le servirà per rimanere sveglia nelle prossime quarantotto ore, disse.

La ragazza prese il bicchiere e buttò giù il liquido. Nessun sapore.

Quest’altro – disse ancora l’infermiera porgendole un altro bicchiere – servirà per lenire la fame e la sete.

La ragazza buttò giù di nuovo. Questa volta le sembrò di bere Coca Cola.

Dopo di che l’infermiera le fece cenno di proseguire in fondo alla stanza dove c’era un grande macchinario a forma di cilindro che alla ragazza fece subito pensare a una specie di astronave, tipo quelle che si è soliti vedere nei film di fantascienza.

La ragazza vi si avvicinò, poi entrò dentro, si sedette e richiuse la portiera. Dopo di che infilò, così come le era stato indicato, un inalatore nel naso e  un altro in bocca. L’infermiera uscì dalla stanza e lei rimase ad aspettare per quelli che probabilmente furono tre minuti ma che a lei sembrarono trenta o forse più e alla fine dei quali vide accorrere un medico e insieme a lui quella che probabilmente era la sua assistente.

Entrambi in camice giallo tenevano in mano un bloc-notes. Lui, che alla ragazza sembrava assomigliare al tedesco di prima, teneva in mano anche un altro oggetto, qualcosa di simile a un grande microfono o a un megafono giocattolo. I due rimasero in piedi, di fronte al macchinario, come fossero in attesa che succedesse qualcosa da un momento all’altro.

D’improvviso, sopra le loro teste si accese una luce – prima rossa, poi gialla e infine di nuovo rossa – che cominciò a lampeggiare a intervalli regolari. Contemporaneamente, un suono simile a quello di un antifurto fuoriuscì dagli altoparlanti sistemati ai quattro angoli della stanza. La ragazza capì che l’esperimento era iniziato e che da quel momento fino alle successive quarantotto ore ogni suo pensiero sarebbe stato registrato.

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